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Marzo a Roma. Appuntamento con la tradizione (di ieri e di oggi)

Piazza della Minerva

Oltre che dei suoi monumenti, dei suoi palazzi e delle sue chiese, una città è fatta anche dei riflessi delle sue storie e della vita che la attraversa. Una vita che, a Roma, è sempre stata scandita da riti, feste, ricorrenze, anniversari, celebrazioni: un fitto calendario di appuntamenti fissi che, con il loro carico di tradizioni, rappresentavano un’occasione di riflessione, tanto religiosa quanto civile, di incontro, condivisione e divertimento, stagione dopo stagione.

Se alcuni, come si dice, non hanno resistito all’oblio del tempo o hanno perso parte di quel senso di perfetta meraviglia che sapevano regalare ai romani e ai tanti visitatori della città, altri godono ancora oggi di ottima salute e si sono persino arricchiti di nuovi elementi. E altri ancora, anche se nati in anni più recenti, sono ormai entrati a pieno titolo tra le “tradizioni” moderne e contemporanee della città.

Così, per vivere appieno Roma e sentirsi dentro la sua storia, mese per mese vi raccontiamo alcuni dei giorni e dei momenti speciali della città, di oggi e di ieri, gli appuntamenti più sentiti o attesi, o anche semplicemente più curiosi.

Carnevale, 27 febbraio - 4 marzo (festa mobile tra febbraio e marzo)

Una manciata di giorni all’insegna delle burle, del rovesciamento delle regole, delle mascherate e della gioia sfrenata prima dell’inizio della Quaresima e dei suoi quaranta giorni di penitenza e purificazione in attesa della Pasqua. Anche se le sue origini possono essere ricercate nelle celebrazioni pagane della Grecia classica e dell’antica Roma, nella sua essenza il Carnevale è una festa legata al mondo cattolico e cristiano. E fu proprio un papa a trasformare Roma, nella seconda metà del Quattrocento, nella capitale mondiale della spensierata follia. Dopo aver trasferito la residenza pontificia nel palazzo che si era fatto costruire a piazza Venezia, Paolo II concentrò infatti nel centro storico e in particolare nella via Lata (l’attuale via del Corso) la maggior parte dei festeggiamenti carnascialeschi, che fino a quel momento avevano avuto il loro fulcro nella zona di Testaccio. Tra sfilate in mascheracarri allegorici, tornei e giostre, le attesissime corse dei cavalli berberi e la festa dei moccoletti, i festeggiamenti coinvolgevano tutta la popolazione, richiamando artisti, letterati, viandanti e curiosi da mezzo mondo. Tramontato il potere temporale dei papi, i numerosi incidenti che inevitabilmente si verificavano tra spettatori e partecipanti convinsero i Savoia a mettere un freno ai divertimenti più spericolati e sfrenati. Lo spirito allegramente sovversivo del Carnevale non si è tuttavia spento del tutto e ancora oggi la città si colora con maschere e coriandoli, vestendosi a festa e proponendo appuntamenti per bambini e adulti in luoghi della cultura e spazi cittadini.

Navigium Isidis, la nave di Iside, 5 marzo

Crocevia di genti e culture, Roma accettò sempre di buon grado dei e culti nuovi – purché naturalmente non pretendessero l’esclusiva e sapessero stare al proprio posto. Per lunghi secoli, la vetta della top ten delle divinità straniere d’importazione spettò a Iside, la grande dea madre egizia, approdata a Roma già nel I secolo a.C., dopo la conquista dell’Egitto, e solo fugacemente osteggiata da Augusto e Tiberio. Il suo tempio più sfarzoso, l’Iseo Campense, si trovava nel cuore del Campo Marzio, proprio alle spalle del Pantheon, e le sue tracce fanno ancora capolino qua e là, tra obelischi (Macuteo, Minerveo…) e frammenti di statue, come il Piè di Marmo e il busto di Madama Lucrezia. Nei vasti confini dell’Impero, il culto di Iside si mantenne ben oltre il IV secolo, così come la celebrazione festosa e colorata che rievocava la vicenda della dea, che aveva fatto risorgere il suo sposo Osiride dopo aver ritrovato in mare le parti del suo corpo smembrato. Preceduta da una sfilata di gruppi mascherati, abbigliati da soldati, magistrati, gladiatori e filosofi, a Roma la statua della dea era condotta in processione fino al porto di Ostia, accompagnata da donne vestite di bianco. Qui i fedeli riempivano una barca rituale di doni e offerte votive e le facevano prendere il largo fino a vederla sparire all’orizzonte, a protezione di marinai e pescatori, e di tutti i suoi fedeli nel mare della vita. La data in cui si svolgeva il Navigium Isidis segnava riapertura della stagione della navigazione, interrotta durante i mesi invernali. C’è chi sostiene che proprio dal corteo danzante e mascherato di Iside e dal carrus navalis (un battello su ruote su cui sarebbe stata montata la statua della dea) derivi la tradizione cristiana del carnevale.

Santa Francesca Romana, 9 marzo

È la più romana di tutte le sante: Francesca Bussa de’ Leoni – Ceccolella – nasce a pochi passi da piazza Navona, sul finire del Trecento, da una ricca e nobile famiglia. Costretta giovanissima al matrimonio con l’altrettanto ricco e nobile Lorenzo de’ Ponziani, insieme con la cognata Vannozza trasforma la casa del marito a Trastevere in un punto di riferimento per i più bisognosi, in una Roma ferita da lotte intestine, carestie e pestilenze. Nonostante il matrimonio e la maternità, nel 1425 con altre giovani donne fa voto di oblazione davanti ai padri olivetani del monastero di Santa Maria Nova, nella chiesa che le sarà poi popolarmente intitolata e dove ancora oggi riposa. Nel 1436, alla morte del marito, raggiunge le consorelle nel monastero di Tor de’ Specchi, ai piedi del Campidoglio e accanto al Teatro di Marcello, assumendone la guida. Espertissima nel curare con erbe e decotti nonché abile levatrice, Francesca morirà il 9 marzo di quattro anni dopo: tutta la città accorrerà a venerarne la salma e Roma la considererà da subito una santa, anche se per il processo di canonizzazione bisognerà attendere fino al 1608. A raccontarne vita e miracoli rimangono i quattrocenteschi affreschi nel monastero delle oblate, che apre le sue porte al pubblico il 9 marzo di ogni anno, giorno in cui è celebrato l’antichissimo rito della benedizione dell’unguento e delle fettucce per le partorienti. L’angelo custode che la santa vedeva camminarle accanto ha fatto sì che venisse scelta come patrona degli automobilisti, oggetto di una particolare benedizione fin dagli anni Venti del Novecento. Ancora oggi, nel piazzale davanti al Colosseo, alla presenza delle autorità cittadine vengono benedette alcune autovetture delle forze dell’ordine e dei mezzi di emergenza, insieme a un limitato numero di taxi e auto private.

Il miracolo di San Filippo Neri, 16 marzo

Figlio di un notaio fiorentino, Filippo arriva non ancora ventenne in una Roma solo apparentemente opulenta: per i successivi 60 anni sarà un instancabile animatore di carità ed evangelizzazione, passando alla storia come il “secondo Apostolo” della città. Nel convento attiguo alla chiesa di San Girolamo della Carità, dove Filippo si trasferisce nel 1551 dopo essere stato ordinato sacerdote a San Tommaso in Parione, inizia a radunare intorno a sé un gruppo di giovani: sarà il primo nucleo della Congregazione dell’Oratorio, alla quale papa Gregorio XIII affiderà nel 1575 la chiesa di Santa Maria in Vallicella. Tra i tanti luoghi in cui “Pippo bbono”, il “santo della gioia” o il “giullare di Dio”, ha lasciato traccia del suo operato c’è però anche Palazzo Massimo alle Colonne, teatro della miracolosa, breve, resurrezione del figlio adolescente del principe Fabrizio Massimo, consumato da una lunga malattia. Impegnato a dire messa, Filippo non aveva fatto in tempo ad assistere il giovane Paolo negli ultimi istanti di vita. Arrivato al suo capezzale lo avrebbe però abbracciato e cosparso di acqua benedetta, iniziando a chiamarlo per nome. A quel punto il giovane avrebbe riaperto gli occhi e, dopo aver chiesto di essere confessato, avrebbe detto di essere felice di ricongiungersi in paradiso con la madre e la sorella Elena, morta pochi giorni prima. Con la benedizione del santo, Paolo sarebbe quindi morto nuovamente. Era il 16 marzo 1583: la stanza in cui avvenne il miracolo fu trasformata in una cappella che custodisce due reliquie di Filippo, i suoi occhiali e il suo rosario. Fino a pochi anni fa, nella mattinata del 16 marzo, il palazzo apriva le sue porte ai fedeli che volessero partecipare alla messa privata nella cappella del miracolo e rendere omaggio a uno dei santi più amati della città.

San Giuseppe e i bignè, 19 marzo

Padre putativo di Gesù, protettore dei più deboli e dei falegnami, “uomo giusto” secondo i Vangeli, San Giuseppe è uno di quei santi che suscitano una simpatia istintiva. La Chiesa lo celebra due volte all’anno, il 1° maggio come patrono dei lavoratori e appunto il 19 marzo, in concomitanza con la Festa del Papà nei Paesi cattolici. La scelta di quest’ultima data, la vigilia dell’equinozio di primavera, risentirebbe di culti popolari e plebei legati alla rigenerazione della terra: nell’antica Roma in questi giorni si tenevano i Liberalia in onore di Liber pater e Libera, due divinità italiche garanti della fertilità, cui erano offerte focacce impastate con miele vendute per le vie della città. La componente “dolce” passò in eredità alla festa del santo, destinata a diventare uno degli appuntamenti più attesi della Roma dei Papi. A finanziarne le celebrazioni era la Confraternita dei Falegnami, che alla fine del Cinquecento aveva avviato la costruzione di una nuova grande chiesa sopra il Carcere Mamertino, nel Foro Romano. Processioni e messe solenni si svolgevano il 19 marzo nella chiesa di San Giuseppe dei Falegnami: il pio raccoglimento era però contornato da altrettanto solenni mangiate di frittelle e bignè alla crema, fritti in giganteschi padelloni tra musica, balli e stornelli. Una diffusa leggenda sosteneva del resto che durante l’esilio in Egitto il santo si fosse visto costretto a improvvisarsi pasticcere ambulante  – un “frittellaro”, come viene amichevolmente chiamato a Roma. Dagli anni Venti del Novecento, le celebrazioni si spostarono a pochi passi da San Pietro, nel quartiere Trionfale, intorno alla nuova basilica minore di San Giuseppe, dove ancora oggi, anche se in tono nettamente minore rispetto al passato, il santo continua a essere onorato e festeggiato a suon di bignè.

Le Fosse Ardeatine, 24 marzo

“L’ordine è già stato eseguito”: termina con queste parole lo scarno e burocratico comunicato diramato dal comando tedesco per annunciare la terribile rappresaglia ordinata in risposta a un’azione partigiana, la fucilazione di dieci “criminali comunisti” per ogni tedesco ucciso. Tutto era cominciato poche ora prima, nel tardo pomeriggio del 23 marzo, quando una bomba scoppiata in via Rasella, alle spalle di piazza Barberini, uccide 32 soldati tedeschi innescando una reazione immediata e rabbiosa delle forze di occupazione del Terzo Reich. Alle persone rastrellate in strada con una cieca caccia all’uomo che mette a ferro e fuoco l’intero quartiere, e poi allineate davanti a Palazzo Barberini, sono aggiunti ebrei, prigionieri politici e detenuti comuni prelevati dal carcere di via Tasso e da Regina Coeli: alle 14 circa del 24 marzo, i 335 prigionieri, con le mani legate dietro la schiena, vengono caricati su furgoni e trasportati in una località appena fuori dall’abitato: a essere scelte come luogo dell’eccidio sono alcune antiche cave di pozzolana situate nei pressi della via Ardeatina, poi diventate tristemente note con il nome di Fosse Ardeatine. Qualche giorno dopo, le volte della galleria sono fatte saltare con la dinamite per ostruire l’accesso alla cava e occultare i cadaveri: si dovette quindi attendere la liberazione per dare inizio al difficile e dolente lavoro di recupero delle salme e alla loro identificazione. Adesso i morti riposano in un ordinato sacrario-monumento nazionale, dove il 24 marzo di ogni anno i romani, il Presidente della Repubblica e le maggiori autorità dello Stato rendono omaggio ai caduti e mantengono viva la memoria di una delle maggiori stragi nazifasciste in Italia.

L’Annunciazione e la “processione delle zitelle”, 25 marzo

A Roma le rappresentazioni dell’Annunciazione sono già presenti fin dal III secolo, nelle catacombe di Priscilla, per esempio, dove la Vergine in trono è raffigurata accanto a un messaggero avvolto in una tunica. Interamente dedicati alla divina maternità di Maria, vestita come una principessa bizantina, saranno poi nel V secolo i mosaici dell’arco trionfale di Santa Maria Maggiore e non a caso proprio in questa basilica verrà fatta terminare la grande processione prescritta per la solennità religiosa, introdotta nel calendario liturgico romano alla fine del VII secolo e fissata al 25 marzo, nove mesi prima del Natale. L’avvenimento centrale della festa fu però a lungo una singolare e fastosa cerimonia che si svolgeva nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, nel Rione Pigna, alla presenza del papa: la frequentatissima “processione delle zitelle”. Il rito era stato istituito alla metà del Quattrocento dall’Arciconfraternita della Santissima Annunziata, con il nobile scopo di aiutare economicamente le fanciulle “oneste e di buona fama”, ma prive di mezzi, a sposarsi o entrare in convento, mantenendole sulla retta via. Vestite di bianco e interamente “ammantate”, coperte cioè da un velo che lasciava a stento intravedere gli occhi, le fanciulle entravano in chiesa con un cero in mano e si inginocchiavano dinnanzi al pontefice per il rituale bacio della “sacra pantofola”, ricevendo un sacchetto di seta bianca con la dote in monete. La cerimonia fu sospesa nel 1870, con l’Unità d’Italia, ma per tornare indietro nel tempo basta fermarsi ad ammirare la magnifica Annunciazione dipinta da Antoniazzo Romano per la chiesa: mentre l’arcangelo Gabriele le annuncia la futura maternità, la Vergine Maria è intenta a consegnare un candido sacchetto a tre giovani accompagnate dal cardinale Juan de Torquemada, zio del famoso inquisitore e fondatore dell’Arciconfraternita.

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