“Nomina sunt consequentia rerum”, ovvero i nomi sono conseguenza della realtà delle cose. Così recita una celebre massima latina, ma spesso a cogliere la vera essenza delle cose e a restituirne un ritratto vivido sono invece i soprannomi con cui vengono prontamente ribattezzate. La fantasia popolare, si sa, è inesauribile e si è esercitata nei secoli, inesorabilmente e con gusto, persino su monumenti pubblici e grandi opere, condensando nel giro di un’immagine le loro caratteristiche e specificità.
Espressione di uno humor perfido e scanzonato o di una meravigliosa capacità di sintesi, nomignoli e sfottò si sono rivelati talvolta così efficaci da tramandarsi di generazione in generazione e da imporsi nell’uso comune. Ma sono anche, in fondo, una forma di affetto, un modo creativo per accorciare le distanze e riappropriarsi di quei simboli che hanno contribuito a dare un volto a Roma. Ve ne presentiamo sette, in ordine alfabetico, per scoprire come la capacità di scovare il soprannome giusto sia a sua volta un’arte.
#1 Angelo puntello
La chiesa di Sant’Andrea della Valle fu per lo più costruita tra il 1590 e il 1650 su disegno di Giacomo Della Porta prima e di Carlo Maderno poi, al quale si deve anche la meravigliosa cupola, seconda per bellezza e ampiezza solo a quella di San Pietro. Diciotto statue e figure, tra piccole e grandi, popolano la sua facciata barocca: tra di esse, in alto a sinistra c’è un angelo che fa da raccordo tra il piano inferiore e quello superiore della facciata. Per la legge della simmetria, al lato opposto ce ne dovrebbe essere un altro ma non è così: si dice, infatti, che l’opera ebbe scarso successo e fu criticata anche dal papa Alessandro VII. Il suo autore era Ercole Ferrata, discepolo di Alessandro Algardi e stretto collaboratore di Gian Lorenzo Bernini, per il quale avrebbe poi realizzato uno degli angeli del ponte Sant’Angelo. Piccato per la freddissima accoglienza, Ferrata si sarebbe rifiutato di scolpire il secondo angelo, invitando il papa a farselo da sé. L’angelo solitario, con l’ala distesa e disposta contro la parete quasi a sostenerla, provocò il caustico commento di Pasquino che diede origine al soprannome: “Vorrei volare al pari di un uccello, ma qui fui posto a fare da puntello”.
#2 Confetto succhiato
In quello che un tempo era il quartiere abitato da ricche famiglie toscane, la basilica di San Giovanni dei Fiorentini venne crescendo nell’arco di ben tre secoli, dal 1519 fino al 1734. Al concorso bandito all’inizio del Cinquecento da Leone X, che riprese il progetto affidato da Giulio II a Bramante e interrotto per la morte del pontefice, parteciparono i migliori architetti dell’epoca: a prevalere fu Jacopo Sansovino, ma presto gli subentrarono Antonio da Sangallo il Giovane e poi Giacomo Della Porta. Nel 1609 entrò in scena Carlo Maderno che eresse, tra l’altro, la caratteristica cupola impostata su un alto tamburo ottagonale e conclusa da una graziosa lanterna. Terminata nel 1614, la cupola slanciata testimonia l’equilibrata e raffinata sensibilità di Maderno: fedeli al loro spirito dissacratore, però, i romani la soprannominarono il “confetto succhiato” per l’immagine suggerita dalla sua foggia allungata. E sotto di essa riposa il suo autore, sepolto insieme a Francesco Borromini all’interno della chiesa.
#3 Dinosauro
Alla fine degli anni Trenta, in vista di quella che doveva essere l’Esposizione Universale del 1942, si decise di dare un volto monumentale e grandioso alla “vecchia” Stazione Termini, inaugurata tra i campi e le vigne dell’Esquilino solo nel 1874. I lavori, diretti da Angiolo Mazzoni, furono però ben presto interrotti dalla guerra. Affidati a due nuovi gruppi di architetti, vennero quindi completati solo nel dicembre 1950, in un clima politico e culturale completamente mutato. Di quest’ultima fase è l’elemento forse più caratterizzante della stazione, la lunga pensilina in cemento, opera dell’architetto Montuori, che si protende oltre il volume vetrato delle biglietterie. Viste di lato, le sue linee sembrano riprodurre la coda, la schiena e il collo di uno dei grandi rettili della preistoria e così negli anni Sessanta fu soprannominata scherzosamente dai romani il “dinosauro”. La sua forma in realtà incornicia il profilo dell’Agger delle Mura Serviane, in una perfetta continuità fra antico e moderno. Del resto, il motto del progetto degli architetti che idearono la struttura era “Servio Tullio prende il treno”.
#4 Macchina da scrivere
“Un’ingombrante montagna di marmo”, nella definizione del giornalista e politico Antonio Cederna, posta a onorare il primo re dell’Italia unificata: per la costruzione del Vittoriano, affidata nel 1885 al giovane architetto Sacconi e poi completata da Pio Piacentini, Gaetano Koch e Manfredo Manfredi, fu stravolta la geografia delle epoche passate e vennero rase al suolo importanti testimonianze medioevali e rinascimentali. Monumentale e fuori scala, fu da subito considerato un pugno nell’occhio, colpa anche della decisione di rimpiazzare il travertino previsto nel progetto con il bianchissimo botticino bresciano. Si è quindi guadagnato i nomignoli più diversi e irriverenti, da “macchina da scrivere”, per il colonnato che ne ricorda i tasti, a “torta nuziale”, da “biancone” a “dentiera”, e negli anni Ottanta fu persino al centro di una sorta di processo che aveva come obiettivo la sua demolizione. Quel che è certo è che calamita ogni sguardo, oltre a essere ormai uno dei simboli di di Roma e un must per i turisti. Dalla sua sommità, dal 2007 raggiungibile con ascensori in vetro, si gode poi di un panorama mozzafiato sui tetti della città.
#5 Monte d’Empietà
Nella Roma dei papi, il Monte di Pietà, o dei Pegni, arriva tardi rispetto ad altre città: fondato nella prima metà del Cinquecento dal francescano Giovanni da Calvi con l’approvazione di Paolo III Farnese, dopo meno di 100 anni si trasferì nel Palazzo Santacroce Aldobrandini. Per adattare il palazzo al nuovo uso, si chiamarono architetti del calibro di Francesco Borromini e Carlo Maderno, che prolungò la facciata realizzata dal Mascherino per il cardinale Prospero Santacroce. Dello stesso periodo è anche la cappella, un gioiello dell’arte barocca rivestito di marmi policromi e stucchi dorati. La costruzione dell’edificio proseguì fino al 1730 e nel 1759 si aggiunse anche un altro edificio, la “Casa Grande” dei Barberini, che nel frattempo si erano trasferiti nel nuovo palazzo sul colle Quirinale. Tanta bellezza e imponenza fecero però una scarsa breccia nel cuore di chi era costretto a ricorrervi. Nonostante fosse nato per combattere l’usura e a favore dei poveri, come recita la targa disegnata da Carlo Maderno, fu così presto ribattezzato sarcasticamente “Monte d’Empietà” dai romani, probabilmente non soddisfatti delle stime o degli interessi richiesti.
#6 Palazzaccio
Un gigante fragile così poco amato da guadagnarsi quel soprannome con cui tutti, a Roma, lo conoscono. Insieme al Vittoriano, il Palazzo di Giustizia è tra le maggiori opere realizzate dopo l’Unità d’Italia ma nacque già sotto una cattiva stella. Il suo architetto Guglielmo Calderini lo progettò sul lato sinistro del Tevere, nel Rione Prati che all’epoca stava sorgendo. Scavando, tornarono alla luce importanti reperti archeologici – tra cui una rarissima bambola snodabile, oggi a Centrale Montemartini, nel sarcofago della giovane Crepereia Tryphaena – ma il terreno cedevole dell’area provocò rallentamenti e problemi di stabilità, tanto da far rinunciare a costruire il terzo piano. Il palazzo fu così inaugurato solo 22 anni dopo, nel 1911, accolto da critiche tecniche ed estetiche così pesanti da spingere, si dice, Calderini al suicidio. Interamente rivestito di travertino, mastodontico e iper-decorato, inviso per la sua funzione e per di più oggetto di un’inchiesta parlamentare per evidenti sospetti di corruzione, per anni ha fatto storcere il naso a tutti ma è ormai parte del panorama della città e testimonianza storica di un’epoca. Così, quando dagli anni Sessanta si discusse sul suo abbattimento al riaffiorare di crepe e cedimenti, fu giustamente graziato e rimesso in sicurezza.
#7 Pulcino della Minerva
C’è un elefantino di pietra sul sagrato della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, costruita sui resti di un tempio dedicato alla dea della sapienza. Nel 1665, nel giardino del vicino convento era stato trovato un piccolo obelisco che papa Alessandro VII Chigi volle sistemare nella piazza. Per realizzare il basamento, dopo aver interpellato diversi architetti tra cui il domenicano Giuseppe Paglia, fu chiamato Gian Lorenzo Bernini: tra i tanti disegni presentati, il papa scelse l’animale che rappresentava l’idea di forza. Bernini avrebbe voluto che il peso dell’obelisco gravasse interamente sulle zampe dell’elefante ma i domenicani, con in testa Padre Paglia, convinsero il papa che in questo modo la stabilità dell’obelisco sarebbe stata messa a repentaglio. Sotto la pancia del pachiderma fu così alla fine inserito un cubo di pietra come supporto, con il risultato di appesantirne le forme. Tozzo e con corte gambette, il piccolo elefante divenne oggetto di motti e lazzi e venne soprannominato dai romani il “Porcino della Minerva”, cioè il piccolo porco, divenuto più tardi purcino e quindi pulcino. La sua coda alzata, con il posteriore rivolto in direzione del convento domenicano, fu secondo la vulgata una piccola vendetta del grande scultore.