“Affari de cipolla e bieta” è un modo di dire tutto romano per indicare una questione di poco conto. Il peso specifico delle verdure dell’orto nella cucina di Roma, una cucina tradizionalmente povera, popolare, basata su ingredienti di derivazione contadina, è però tutt’altro che irrilevante. Anzi, a ispirare numerosissime ricette e a dare vita a pietanze dal gusto inimitabile sono state spesso proprio le verdure che crescono nella campagna romana, una terra fertile e ricca: eccellenze produttive ancorate alla tradizione del territorio e per questo contrassegnate in molti casi dall’aggettivo “romanesche”.
I carciofi romaneschi
Tondo e grande, senza spine, con un cuore tenero e un colore che varia dal verde al viola: chiamato popolarmente mammola o cimarolo, il carciofo romanesco non teme confronti, non per nulla è stato il primo ortaggio in Italia a essere tutelato con il marchio IGP. Protagonista indiscusso dei mercati rionali tra gennaio e maggio (anche se la stagione migliore si concentra tra marzo e aprile), ha riconosciute proprietà terapeutiche (antiossidanti, disintossicanti, depurative…) e una lunga tradizione alle spalle: nel Lazio pare si coltivasse già al tempo degli Etruschi, come testimonierebbero le raffigurazioni delle sue foglie sulle tombe della necropoli di Tarquinia. Il gusto unico dei carciofi romaneschi si esalta nelle ricette in cui la tradizione romana ha riservato loro un posto d’onore. Preparati “alla romana”, ripieni di mentuccia e aglio, e messi a cuocere in tegame interi e “a testa in giù”, sprigionano profumi difficili da dimenticare. Cucinati con piselli novelli, fave fresche e lattuga, danno vita alla famosa “vignarola” romana, un altro piatto di origine contadina, oggi ricercatissimo. Aperti a fiore e fritti “alla giudia”, sono la star della cucina ebraico-romanesca nata nell’antico ghetto di Roma. Croccanti e dorati, dopo essere stati passati in una pastella di uova e farina e poi fritti in padella, sono infine il perfetto accompagnamento dell’abbacchio servito per il pranzo pasquale.
Le zucchine romanesche
Il sole e il caldo ne rendono unico il sapore: tipica della tarda primavera e della stagione estiva, ma disponibile nei mercati fino a novembre, la zucchina romanesca si distingue dalle più grandi zucchine verde scuro coltivate nel resto della Penisola per il suo colore chiaro, la sua forma stellata e le sue striature. A renderla inconfondibile contribuisce naturalmente anche il delicato fiore attaccato alla cima. Con le sue sfumature nei toni del giallo e dell’arancio, il fiore di zucca è l’esempio perfetto di come la cucina romana sappia trasformare ingredienti semplici in opere d’arte: farcito con alici e mozzarella, poi passato in pastella e fritto, è una gratificazione per il palato e lo spirito. Di loro, le zucchine romanesche sono tra gli ortaggi più amati in cucina, merito anche di una versatilità senza paragoni. Le possibilità di assaggio si moltiplicano quasi all’infinito: saltate in padella e usate per condire una pasta o in una cremosa frittata, grigliate o gratinate, ripiene di carne macinata e cotte nella salsa di pomodoro… Unite alla mentuccia romana e all’aceto, sono poi le protagoniste di una delle specialità della cucina ebraico-romanesca: la “concia di zucchine”. Fritte e disposte a strati in una pirofila, condite con un battuto di mentuccia e irrorate con aceto di vino bianco, vanno fatte riposare per una notte in frigorifero prima di essere servite in tavola: un contorno perfetto nella sua semplicità.
La lattuga romana
Con il suo cespo compatto di un verde intenso all’esterno e le sue foglie lunghe, croccanti e dal sapore dolce, la lattuga romana si fa subito notare tra i banchi dei mercati. Resistente e facile da coltivare, è oggi una delle varietà di lattuga più note e diffuse in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti dove fa da base alla ricchissima Caesar Salad, ma le sue origini si perdono nel tempo. Di certo era amatissima già nell’antica Roma: delle sue proprietà e del suo utilizzo in insalate e minestre ne parlano autori come Plinio il Vecchio e Columella, e si racconta che i legionari romani ne portassero con sé i semi per piantarla intorno agli accampamenti. Proprio all’antica Roma la lattuga deve del resto il suo nome: “lactuca”, cioè “ricca di latte”, per il liquido lattiginoso contenuto nei gambi e nelle radici. Un lattice a cui la medicina popolare attribuiva grandi poteri e che ha in effetti proprietà analgesiche, sedative e distensive. Povera di calorie ma ricca di sali minerali e vitamine, la lattuga romana è la regina delle insalate ma è squisita anche cotta, per esempio in torte salate e risotti. La tradizione romana la unisce ai carciofi, alle fave e ai piselli (sfumati magari con un po’ di vino bianco) nella ricetta della vignarola, un concentrato di doni primaverili dell’orto nato nell’area dei Castelli Romani. Con il pecorino romano, è poi l’ingrediente che non ti aspetti di una preparazione antica da riscoprire, la “frittata alla burina”.
I broccoli romaneschi
Verde e pizzuto, con quel gioco di geometrie che gli dona un fascino quasi ipnotico, il broccolo romanesco è il re della stagione invernale, anche se il suo periodo di raccolta arriva fino a maggio, ed è coltivato da secoli nelle campagne romane. Bello da vedere, ma soprattutto buono e sano da mangiare: povero di calorie ma ricco di proprietà, era conosciuto e amato fin dai tempi più remoti. Gli antichi romani ne utilizzavano anche il succo per svariati usi terapeutici (come antianemico, diuretico, cicatrizzante, vermifugo, antistaminico…), oltre a mangiarlo crudo, prima dei banchetti, per aiutare l’organismo ad assorbire meglio l’alcool. Con il loro gusto inconfondibile i broccoli romaneschi non richiedono preparazioni elaborate: sono perfetti lessati e ripassati in padella con guanciale e pecorino, oppure “soffocati”, cioè cotti a crudo con aceto e vino bianco, o ancora croccanti e dorati nel grande fritto misto della Vigilia, un’esaltazione delle verdure di stagione accompagnate da tocchetti di baccalà e dalle immancabili mele a fette. Un tuffo nel passato della cultura gastronomica romana è poi la minestra con rimasugli di pasta e broccoli cotti nel brodo di arzilla (comunemente nota come razza), un piatto che la tradizione riservava alla Vigilia di Natale, ai giorni di magro e alla Quaresima. La versione XL del broccolo romanesco è il pregiato broccolo capoccione, chiamato così proprio per la sua grandezza e coltivato esclusivamente nel comune di Albano Laziale.
I finocchi romaneschi e le carote di Maccarese
Tondo e grande, con foglie croccanti di un bianco candido e un sapore che ricorda quello dell’anice: dolce e aromatico, il finocchio romanesco copre circa il 10% della produzione di finocchi in Italia ed è presente sui banchi dei mercati per buona parte dell’anno, a eccezione dei più caldi mesi estivi. La sua storia risale a tempi antichissimi, ne è prova la sua menzione nei papiri egizi e nella mitologia greca: ricco di fibre, vitamine e minerali, era conosciuto e apprezzato tanto per il suo sapore che per le sue proprietà curative, per esempio per migliorare la vista e la forma fisica, e si racconta che i gladiatori romani lo consumassero per accrescere vigore e coraggio. Con il loro profumo intenso, i finocchi romaneschi sono perfetti sia crudi sia cotti, al forno, saltati in padella o stufati. Intinti in una salsa a crudo con olio, sale e pepe sono poi di rigore in una ricetta di una semplicità disarmante e dal nome irriverente, citata persino nei sonetti di Giuseppe Gioachino Belli e Trilussa e considerata afrodisiaca: il “cazzimperio”, la versione romana del pinzimonio. La ricetta storica prevede solamente finocchi e sedano ma la tavolozza dei colori delle crudités si può ampliare aggiungendo per esempio peperoni, cetrioli e ravanelli. O magari le carote di Maccarese, un piccolo comune vicino a Fiumicino: con il loro sapore deciso e il loro profumo persistente, sono un’altra eccellenza del territorio, usatissima anche per zuppe e piatti gourmet.