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I fichi

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I fichi
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Che fico!

Il primo amore non si scorda mai: il fico fu molto probabilmente la prima pianta a essere coltivata dall’uomo nel bacino del Mediterraneo e ha lasciato prove della sua importanza nell’arte, nella cultura, nella religione fin dalla notte dei tempi. Solo per fare qualche esempio: nel Vecchio Testamento era sinonimo di ricchezza e abbondanza, per gli antichi Egizi era simbolo della vittoria sulla morte, nell’antica Grecia ne attribuivano la nascita al dio Dioniso e i suoi frutti erano ritenuti “degni di nutrire oratori e filosofi”. Platone ne era così ghiotto da vedersi attribuito il soprannome di “mangiatore di fichi” e consigliava ai suoi giovani allievi di mangiarne in quantità perché, diceva, “accrescono l’intelligenza”. Oltre a essere ricchi di zucchero, in effetti, sono un’eccellente fonte di fosforo, potassio, calcio, ferro, vitamine e hanno buone proprietà antiossidanti, energizzanti e antinfiammatorie.

Una città fondata sui fichi

La loro gradevolezza e le loro virtù non mancarono di sedurre gli antichi Romani che con il tempo ne diffusero la coltivazione in tutta la penisola italiana e in tutto l’Impero. Del resto, l’albero di fico era collegato anche alla fondazione di Roma: leggenda vuole che sotto un fico selvatico – il fico Ruminale ­– si arenò la cesta che conteneva Romolo e Remo e all’ombra delle sue fronde i due gemelli furono allattati dalla lupa. Raccontano gli antichi storici che, quando dell’albero alle pendici del Palatino non restavano ormai che le vestigia, un altro fico germogliò spontaneamente nel Foro: la pianta era ritenuta di buon auspicio e dal suo stato di salute dipendevano le sorti della città, tant’è che veniva prontamente rimpiazzata quando cominciava a inaridire… E sempre sotto un fico si svolgevano il 7 luglio le None Caprotine, un’antica festa tutta al femminile alla quale partecipavano ancelle e donne libere.

Fichi fatali

Teneri, dolci e di una bellezza seducente, i fichi hanno conquistato cuori, ma hanno anche iniziato guerre. È a loro che si deve, a ben guardare, la distruzione di Cartagine, che di Roma era storica rivale. Nel II secolo a.C., “Carthago delenda est” era la ripetuta ammonizione di Marco Porcio Catone, altrimenti noto come Catone il Censore, convinto che i Romani non dovessero mai venire a patti con la loro secolare nemica. Troppo pericolosa e, soprattutto, troppo vicina. La prova? Un cesto di fichi ancora freschissimi arrivati dritti dritti da Cartagine ed esibiti a tutti i senatori ancora restii a un intervento militare come potente strumento di persuasione. Ma ai fichi è legata anche la morte della più famosa regina d’Egitto, amante prima di Giulio Cesare e poi di Marco Antonio. Cleopatra li amava infatti a tal punto che tra le loro foglie volle che fosse nascosta l’aspide con cui si tolse la vita. O almeno così racconta Plutarco… Secondo un pettegolezzo diffuso, infine, fu un fico avvelenato offertogli dalla moglie Livia a uccidere l’ormai anziano imperatore Augusto.  

Nell’arte e in cucina

Le varietà di fichi sono oggi moltissime ma già Plinio ne elenca 29, tra cui il violaceo e dolcissimo “Brogiotto nero”, protagonista panciuto di tante nature morte rinascimentali. Un canestro ricolmo di magnifici fichi maturi verdi e neri è in un celebre affresco della Villa di Poppea a Oplontis: la fortuna nell’arte, già in epoca romana, andava di pari passo con quella sulla tavola. Indicati per giovani e anziani, e, sempre secondo Plinio, in grado persino di ridurre le rughe, accompagnavano dolci e formaggi, o erano serviti insaporiti con sale, aceto e garum, una salsa di pesce. Facendoli bollire, si otteneva poi il cosiddetto “miele di fichi”, prezioso per dolcificare gli alimenti. Tra le ricette antiche figurano anche lo speciale lonzino di fichi secchi (da pestare con i piedi) di Columella e lo “iecur ficatum” di Apicio, il più famoso gastronomo dell’antica Roma. Una prelibatezza a base di fegato di animali ingrassati con i fichi, talmente di moda da influenzare anche il dizionario: non da “iecur” ma da “ficatum” viene infatti la nostra parola “fegato”.

Quanto vale un fico secco

L’estate è la stagione dei fichi: a giugno maturano i cosiddetti fioroni mentre ad agosto-settembre si raccolgono i forniti (o fichi veri); alle porte dell’autunno arrivano al massimo i fichi tardivi. Per gustarli in altri periodi dell’anno, fin dai tempi più antichi si ricorse all’essiccazione, tanto è vero che a Ercolano sono stati ritrovati numerosi fichi secchi conservati in contenitori fittili o di vetro. Fichi secchi, datteri e miele, ci racconta Ovidio, erano offerti in occasione del capodanno ad amici e parenti come augurio per il nuovo anno. Ma ai fichi è legata anche l’espansione dell’Impero romano: Tacito, negli Annales, spiega che legionari venivano pagati con un pugno di sale (da cui il nome salario) e una manciata di fichi secchi, utilissimi nelle campagne militari per il contenuto calorico e la lunga conservazione. Di un soldato vecchio, incapace di difendere Roma, si poteva insomma dire che “non vale un fico secco”, espressione rimasta per indicare qualcosa che non ha alcuna utilità.

Nobili e popolari

L’imperatore Augusto li mangiava insieme al formaggio e ai pesci, Gallieno li offriva nei suoi sfarzosi banchetti ma i fichi, abbondanti, alla portata di tutti e nutrienti, integravano anche la dieta delle classi meno agiate, rientravano nei pasti concessi agli schiavi e costituirono per secoli l’alimento base dei contadini, tanto da essere chiamati pane dei poveri. All’epoca dell’imperatore Diocleziano, il prodotto più economico sul mercato era proprio una pasta ottenuta pestando e impastando con erbe aromatiche i fichi messi a seccare al sole. Oggi come ieri, i fichi colorano e danno sapore a ogni tipo di portata e continuano a svolgere un ruolo da protagonista, sia in ricette gourmet sia in preparazioni semplicemente sublimi che i romani amano ancora gustare: pizza e fichi o prosciutto e fichi.

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Il re dei frutti estivi: il cocomero

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Il re dei frutti estivi: il cocomero
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Le Origini

Partiamo dal nome, perché questo frutto famoso, fresco e amatissimo da tutti noi è chiamato in molti modi diversi. Il termine più appropriato, che ripete quello dei botanici, utilizzato in tutta l’Italia Centrale e soprattutto dai romani, è cocomero, vicino al latino scientifico Cucumis citrullusAnguria è un termine che invade tutto il Settentrione, con varianti dialettali notevoli.

Il nome risale al tardo greco angurion, che indicava propriamente il cetriolo, termine giunto con la dominazione bizantina, intorno al VI secolo d.C., e diffuso in tutta l’Italia settentrionale attraverso l’Esarcato di Ravenna. Del termine cucumis nella lingua latina non si ha nessuna traccia, fino a quando Virgilio lo usa proprio per indicare il cetriolo, mentre è opera di Plinio l’uso di questa parola per indicare precisamente il cocomero. La variante del nome anguria, per indicare il cocomero, si deve ad Aezio, medico del VI secolo, che usava il termine “aggourion”. Nell’Italia meridionale, invece, l’espressione comune è mellone (o melone) d’acqua, detto anche popone in Toscana.

Anguria o cocomero che dir si voglia, il delizioso frutto appartiene alla famiglia delle Cucurbitacee e proviene dall’Africa tropicale. Secondo alcune fonti storiche, il primo raccolto di cocomeri registrato avvenne addirittura nell’Antico Egitto quasi 5.000 anni fa, e fu documentato in alcuni geroglifici. Il frutto veniva infatti spesso deposto nelle tombe dei faraoni come mezzo di sostentamento per l’aldilà.

Il frutto della tradizione

Nella tradizione romana, il cocomero era l'immancabile chiusura del pranzo di Ferragosto che prevedeva alcune specialità dal carattere semplice e familiare e che riuniva la famiglia intorno alla tavola. Come ricordano Rosa e Roberta D’Ancona ne “La cucina romana”, si iniziava con prosciutto e melone ben ghiacciato, per poi proseguire con fettuccine all’uovo o lasagne al ragù; quindi, il classico pollo alla romana o pollo spezzato con i peperoni, insalatina mista a taglio, per approdare al momento solenne della succulenta e freschissima fetta di cocomero. Ancora oggi, il giorno di ferragosto, ci si può imbattere nei "cocomerari" che vendono le fette al grido di “taja ch’è rosso”.

Di questo frutto straordinario ne esistono circa 50 specie, che possiamo trovare sui banchi del mercato sino a settembre. Quelli coltivati nelle campagne dell'Agro Romano, a pochi chilometri di distanza dalla Capitale, in particolare Maccarese e Torre in Pietra, sono ottimi proprio per le caratteristiche del terreno.

Come riconoscere un cocomero maturo e pronto per essere mangiato?

Per scegliere bene bisogna innanzi tutto controllare il grado di maturazione. Due le accortezze: come prima cosa, facciamo attenzione alla buccia, che deve essere ben tesa e, se graffiata con un’unghia, deve staccarsi facilmente. Poi, battiamo con le nocche il cocomero, e se il suono è ben nitido, è sinonimo di buona qualità poichè dimostra che il frutto è maturo e pieno d’acqua. Una volta aperto, il frutto si deve presentare con la polpa soda e succosa, di colore rosso brillante e senza striature bianche o macchie.

Una fetta di cocomero

Sembra banale ma così non è.  Per conservare al meglio le sue caratteristiche organolettiche, anche una fetta di cocomero richiede alcune accortezze. Il cocomero, infatti, se conservato a temperatura ambiente, risulta essere più nutriente rispetto a quello posto in frigo o appena raccolto. L'ideale è metterlo in frigorifero pochi minuti prima di servirlo e consumarlo in giornata. Ottimo al naturale, tagliato a fette o a tocchetti, il cocomero è perfetto nella preparazione di macedonie, marmellate, granite o in associazione al gelato (con la polpa si ottiene un ottimo sorbetto).

La ricetta: Sorbetto al cocomero

Ingredienti:
- Cocomero, polpa 600 gr
- 1 albume
- Zucchero 130 gr
- Acqua, 260 gr

Preparazione
Prendete un’anguria, tagliatela a metà, poi a fette, togliete la buccia e ricavate 600 gr di polpa togliendo tutti i semi. Con l’aiuto di un mixer frullate la polpa e mettetela in una bacinella. Dedicatevi alla preparazione dello sciroppo di zucchero: mettete sul fuoco un tegame con 270 gr d’acqua, aggiungete lo zucchero e lasciate sciogliere bene fino a portate a bollore. Dopo 5 minuti spegnete il fuoco, trasferite lo sciroppo in una bacinella e lasciatelo raffreddare finché non arriva a temperatura ambiente. Mettete in frigorifero, per almeno mezz’ora, la polpa di anguria e lo sciroppo di zucchero, in modo che diventino ben freddi. Trascorso il tempo necessario spremete un limone con lo spremiagrumi e passate al setaccio il succo, per eliminare i semi. Unite alla polpa di anguria lo sciroppo di zucchero e il succo di limone. A questo punto, montate a neve ben ferma l’albume di un uovo, unitelo alla polpa di anguria e amalgamate per bene con l’aiuto di una frusta. Deve risultare un composto omogeneo. Versate il composto ben freddo nella gelatiera e lasciate mantecare fino ad ottenere un sorbetto cremoso; ci possono volere dai 20 ai 30 minuti. Se non avete la gelatiera, mettere il composto in freezer, ricordandovi di girarlo di tanto in tanto con una forchetta, fino ad ottenere un composto cremoso. Servite il sorbetto all’anguria ben freddo e gustatelo immediatamente.

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Anguria o Cocomero
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Il gelato artigianale, un'affascinante storia di contaminazioni tra culture

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Il gelato artigianale, un'affascinante storia di contaminazioni tra culture
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Dagli Egizi alle ricette di Plinio il Vecchio, fino al gelato da passeggio contemporaneo, quella del gelato e del sorbetto è una storia affascinante, molto più complessa di quanto si possa credere. Testimonianza di una tradizione antichissima che affonda le sue radici sin nel XII millennio A.C quando le popolazioni cominciarono ad apprezzare i benefici del “bere freddo” e conservare la frutta, il latte ed il miele, unico dolcificante conosciuto almeno sino alla fine del IX secolo d.c. E' proprio in questo periodo che gli Arabi, conquistando la Sicilia, diffondono l'uso della canna da zucchero che, incontrando i sapori del mediterraneo e le neviere dell'Etna, diede luogo ad i primi sorbetti.

Nel Medioevo, in Oriente, si era messo a punto una tecnica, appresa poi anche in diverse regioni della penisola italiana, per congelare i succhi ponendoli in recipienti circondati dal ghiaccio. E' tuttavia in epoca rinascimentale che il gelato ed il sorbetto entreranno nei banchetti delle corti e dei sovrani, per dare lustro alle casate, o nei Monasteri, per gli ospiti illustri, o nei ricettari dei cuochi letterati. Geniale il pollivendolo Ruggeri che Caterina de’ Medici, sposa al futuro Re di Francia, volle portare con sé nel 1533, tanto la prodigiosa invenzione del «ghiaccio all’acqua inzuccherata e profumata» aveva stregato il palato della Corte.

Così come geniale Bernardo Buontalenti, architetto e uomo eclettico, che nella seconda metà del XVI secolo, impianta a Firenze apposite neviere per introdurre nei banchetti di corte i sapori ghiacciati. E proprio «l’acqua ghiacciata» compare in una patente reale di Luigi XIV a favore del messinese Procopio de’ Coltelli, fondatore del celebre Caffè Procope, cui si deve, alla fine del XVII secolo, l’introduzione in Francia di gelati, granite e sorbetti. Il mestiere del gelatiere nasce dunque tra il XVI ed il XVII secolo, con grandi cuochi che ne perfezionano costantemente la tecnica sino a portarlo alla sua ascesa e diffusione mondiale nel XIX e XX secolo. Diverse sono le ricette straordinarie storicamente rinvenute, come quelle del gelato di pane risalenti alla fine del Settecento o quella del 1808, dedicata al gelato al tartufo di Francesco Leonardi. Una storia ricca dunque di contaminazioni culturali tra i popoli.

Ma in cosa si differenzia il gelato artigianale da quello industriale?
Per capirne un po' di più mettiamo a confronto le due tipologie. Il gelato artigianale è caratterizzato dall'uso di materie prime fresche e di stagione, è meno grasso del gelato industriale, contiene meno aria ed è servito a una temperatura più alta. Questo fa sì che ci sia più sapore al contatto con la lingua e meno calorie da bruciare: circa 1/3 rispetto a quelle del gelato industriale!
Proviamo a fare il gelato in casa, anche senza gelatiera e con frutta rigorosamente di stagione.

La ricetta: Gelato alla frutta

Ingredienti

  • 1/2 latte
  • Un rametto di vaniglia
  • 4 tuorli d'uovo
  • 6 cucchiai di zucchero
  • 150 gr di frutta

Preparazione 
Versate il latte in un pentolino, aggiungete il rametto di vaniglia e portate il tutto a ebollizione, a fiamma molto bassa. Prendete i 4 tuorli d'uovo, uniteli allo zucchero e montateli fino a farli diventare chiari e spumosi. Unite la crema al latte filtrato e cucinatela finché non si addensa. Aggiungete150 grammi di frutta, ridotta a purea, e versate il composto in uno stampo d'acciaio. Lasciate riposare in freezer sino a che non si sia solidificato e mantecate con una spatola prima di servire.

Dove mangiarlo
Roma offre ottime gelaterie artigianali. Per saperle riconoscere, facciamo attenzione ai colori ed anche alla stagionalità dei gusti che ci vengono proposti.

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Il gelato artigianale
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Spaghetti con le Telline

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Spaghetti con le Telline
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Una tra le ricette più gustose della cucina tradizionale romana

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Più dolce e delicata di altri molluschi, la Tellina del Litorale romano (Donax Trunculus) è un piccolo mollusco bivalve di forma triangolare.

Molto ricercata e apprezzata sin dai tempi dell'antica Roma, la sua presenza in letteratura è già attestata nel I secolo nel celebre De Re Coquinaria, la raccolta di ricette di cucina romana opera di Marco Gavio Apicio, gastronomo, cuoco e scrittore.

La tellina visse un momento di particolare splendore negli anni '50, al tempo della Dolce Vita, quando sulle spiagge romane si riversavano attori e registi provenienti da Cinecittà per degustarla nei momenti di pausa tra un ciak e l’altro. Tra tutti citiamo Federico Fellini, grande estimatore di questo delizioso frutto di mare.

La Tellina mantiene una tradizione di pesca che si è conservata fino ad oggi nella comunità dei pescatori del Litorale romano, un tratto di costa con una peculiare qualità e granulometria della sabbia che, nella zona che va da Passoscuro a Capo d'Anzio, e che comprende le cittadine di Maccarese, Fregene, Fiumicino e Santa Marinella verso nord e Ostia, Castel Fusano, Capocotta, Villaggio Tognazzi, Torvaianica, Lido dei Pini fino a Anzio a Sud, permette delle condizioni di pesca ideali.

La pesca della Tellina è faticosa e solitaria. Quella professionale avviene con dei rastrelli montati su delle piccole imbarcazioni da pesca costiera che escono in mare dall'alba sino a mezzogiorno, esclusivamente nelle giornate di mare calmo. Quella dilettantistica può essere svolta con dei rastrelli tirati manualmente nel rispetto dei quantitativi massimi previsti dalla legge.

Per valorizzare, promuovere e difendere questo vulnerabile mollusco, è stato creato un presidio Slow Food in collaborazione con alcuni "tuninolari" (da "tuniola", nome dialettale della tellina) detti anche "tellinari", per preservare una metodologia di pesca antica e sostenibile e tutelare il tratto di costa interessato dalla pesca e le sue acque di alta qualità.

Per gustare consapevolmente questo succulento e ricercatissimo mollusco, ecco due importanti indicazioni:

  • è vietata la cattura e la commercializzazione di telline al di sotto della taglia minima di 2 cm;
  • nel mese di aprile, periodo di ripascimento, è in vigore il fermo biologico e dunque ne è vietata la pesca.

Vi proponiamo una ricetta tra le più gustose della cucina tradizionale romanesca che ne esalta al massimo il sapore e che richiede pochi ingredienti di facile reperibilità: gli spaghetti con le telline.

Ingredienti (dosi per 4 persone):

  • 400 grammi di spaghetti
  • 500 grammi di telline del Presidio Slow Food
  • 1 mazzetto di prezzemolo
  • 1 spicchio d'aglio
  • peperoncino
  • sale qb
  • olio di oliva extravergine qb
  • ½ bicchiere di vino bianco

Preparazione

Se non avete acquistato le telline già desabbiate, mettetele a spurgare in acqua salata (1 cucchiaio di sale grosso in 1 litro di acqua) per una nottata.

In una padella capiente, preparate un soffritto con l'aglio, il peperoncino e l'olio di oliva.

Appena l'aglio sarà leggermente dorato, sciacquate le telline e mettetele nella padella.

Alzate la fiamma, coprite e lasciatele aprire mescolando di tanto in tanto.

Aggiungete 1/2 bicchiere di vino bianco e lasciate evaporare senza coperchio.

Togliete la padella dal fuoco, spolverate con il prezzemolo e aggiungete gli spaghetti che avrete cotto in abbondante acqua salata, lasciandoli al dente.

Servite in tavola, accompagnando il piatto con un bicchiere di vino bianco ghiacciato.

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Sapori e antiche tradizioni in un luogo dove il tempo sembra essersi fermato

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Telline
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Sauté di Lupini o di Cannolicchi

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Sauté di Lupini o di Cannolicchi
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Fin dai tempi della Roma Imperiale, quando l'Impero romano si estendeva dall'Oceano Atlantico al Caspio, alle specie ittiche e alla loro lavorazione erano dedicate gustose preparazioni e condimenti.

Le prime testimonianze scritte risalgono al I secolo e sono rintracciabili nel De Re Coquinaria, celebre opera di Marco Gavio Apicio, gastronomo, cuoco e scrittore romano, che vi raccoglie una serie di ricette dedicate alla cucina coeva e alle salse per i piatti di pesce lessi, fritti e arrosto, in particolare nel capitolo IX, Thalassa (Il mare) e nel capitolo X, Halieus (Il pescatore).

Nel corso dei secoli, il pesce affluiva copiosamente sui banchi di vendita dell'Urbe in tale quantità e assortimento da lasciare stupiti i viaggiatori di ogni epoca.

In età tardoantica e medievale, il baricentro di questo mondo straordinario era costituito dalle colonne corinzie e dalle strutture circostanti del Portico d'Ottavia, nel cuore del quartiere ebraico di Roma, i cui spazi erano utilizzati per la vendita del pesce. L’area, conosciuta come Forum piscium o Pescheria Vecchia, fu attiva fino alla fine dell’800.

Oggi, dell’attività vivace di quel mercato rimane solo la pietra che si trova a destra del grande arco del Portico, ma basta ammirare uno dei bellissimi acquerelli di Ettore Roesler Franz, per immergersi in quelle intense scene di vita popolare immortalate dall’artista.

La grande importanza costituita dal pesce nella dieta dei romani è dunque testimoniata dalle numerose ricette dedicate alle specie ittiche. Tra queste emergono quelle dedicate a due molluschi bivalvi, i Cannolicchi (Ensis minor) e i Lupini (Venus gallina). Il primo ha un sapore dolce e sapido e il secondo delicato e marino. Insieme alla Tellina (Donax trunculus), rappresentano le tipicità della pesca dei frutti di mare del Litorale romano che arrivano sui banchi delle pescherie della Capitale direttamente dai porti di Anzio e Fiumicino. Entrambi vengono cucinati in maniera molto semplice, proprio per esaltarne le delicate qualità organolettiche e conservarne il sapore caratteristico.

I cannolicchi e i lupini si trovano comunemente nelle nostre pescherie, ma è bene conoscere alcune indicazioni tecniche per un consumo più consapevole. Entrambi sono catturati con imbarcazioni chiamate draghe idrauliche su fondali rispettivamente di 2-5 metri per i cannolicchi e di 5-8 metri per i lupini.

I cannolicchi, pescati tutto l'anno, tranne che nei mesi di aprile e maggio, periodo in cui si riproducono, sono dei molluschi molto sensibili all'inquinamento, tant'è che per circa 10 anni sono scomparsi dalle nostre tavole per tornarvi solo all'inizio degli anni 2000. Più dolci e dalle carni più morbide rispetto a quelli dell'oceano Atlantico, li possiamo riconoscere dalla dimensione più ridotta e dal colore chiaro della conchiglia.

Il lupino, invece, è la tipica vongola del Mediterraneo, non allevata e pescata tutto l'anno sul nostro Litorale, esclusi i mesi di aprile e settembre. Ha una forma ovoidale ed è più piccola della vongola verace.

Vi proponiamo una ricetta semplice ma nel solco della tradizione che si può realizzare con entrambi i molluschi per esaltarne al meglio i sapori delicati.

Ingredienti (dosi per 4 persone):

  • 1 kg di lupini o di cannolicchi
  • 1 mazzetto di prezzemolo
  • 2 spicchi d'aglio
  • peperoncino qb
  • olio di oliva extravergine qb

Se non avete acquistato i molluschi già puliti, metteteli qualche ora al fresco a spurgare la sabbia in acqua salata (1 cucchiaio di sale grosso in 1 litro d'acqua).

Soffriggete in una padella l'aglio, l'olio e il peperoncino. Una volta pronto il soffritto aggiungete i lupini o i cannolicchi, coprite con un coperchio e proseguite la cottura a fuoco vivace finché non si aprono tutti i molluschi.

A questo punto ponete i molluschi in un altro recipiente togliendo quelli che non si sono aperti, filtrate il sugo e aggiungetelo insieme al prezzemolo tritato.

Accompagnate il tutto con pane casereccio tostato e un buon bicchiere di vino bianco ghiacciato.

 

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Sauté di Lupini
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