L'acquedotto Alessandrino (Aqua Alexandrina) è l’ultimo, in ordine di tempo, dei grandi acquedotti romani. Costruito per ordine dell’Imperatore Alessandro Severo nel 226 d.C. per incrementare le terme da lui fatte realizzare nell’area del Campo Marzio, l’acquedotto era alimentato con l’acqua dalle sorgenti situate in località “Pantano dei Grifi” (oggi Pantano Borghese). Era quella una vasta zona acquitrinosa e di risorgive, alle falde dei Colli Albani e dei Monti Prenestini, compresa tra le vie Prenestina e Casilina.
L’imponente struttura si snodava in un iniziale tracciato sotterraneo per poi proseguire in elevato, lungo una percorrenza di circa 22 km, dalla tenuta di Torre Angela, il fosso di Vallelunga, della Mistica, di Tor Tre Teste, di Casa Calda, del Casale dei Datteri, di Centocelle e della Marranella; raggiungeva poi, sempre in elevato, via di Tor Pignattara, per tornare interrato fino a Porta Maggiore. Da qui si protraeva fino al Campo Marzio, dove terminava.
Le semplici arcate di cui è formato, oggi visibili, risultano più volte rimaneggiate. Nel III-IV secolo d.C. vennero rifoderate in laterizio, ricompattando così la visione originale della struttura. In questo stesso periodo furono aggregati altri archi agli originari con dei piloni, in modo da rafforzarne la resistenza. I principali interventi di restauro risalgono all'epoca di Diocleziano, tra il III e il IV secolo, poi tra il V e il VI secolo e ancora verso la fine dell'VIII, ad opera di papa Adriano I (772-795). A quest’ultimo infatti si deve l’intervento di rinforzo dell’impianto mediante l’utilizzo di blocchi di opus quadratum di reimpiego, il restauro delle cortine, ancora per mezzo di materiali di reimpiego (tufelli e laterizi disposti con piano di posa ondulato) e delle torri.
Foto: Sovrintendenza Capitolina
Rione IV - Campo Marzio
Campo de’ Fiori
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