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Le Ottobrate romane

Che bella ottobrata!

È un’espressione che chi vive a Roma conosce bene e che di certo vi capiterà di sentire se vi trovate in città all’inizio della stagione autunnale: sì, perché ottobre, per Roma, è un mese speciale, quasi una seconda estate, con giornate luminose e temperature più che gradevoli. Merito del clima, ancora mite e tiepido, o della luce più tenue e morbida dell’autunno, in questo periodo la città sembra dare il meglio di sé e tutto assume un fascino particolare. Ma ottobre, si sa, porta con sé anche i colori e i profumi del vino: ed è proprio il vino l’altro ingrediente essenziale di quelle che un tempo erano le famose “Ottobrate romane”.

Un rito festoso per nobili e popolani

Le Ottobrate erano un vero e proprio rito allegro e chiassoso che, secondo molti, riprendeva la tradizione degli antichissimi Baccanali, le festività pagane legate al ciclo delle stagioni e alla celebrazione del dio del vino. Fino ai primi del Novecento, a Roma era infatti abitudine festeggiare la fine della vendemmia lasciandosi andare a qualche piccolo eccesso. Così nel mese di ottobre, la domenica o il giovedì mattina, era normale vedere partire da ogni rione piccole carovane dirette “fuori porta”. Le feste e le escursioni coinvolgevano nobili e popolani e avevano come mete le campagne, i frutteti e i vigneti che un tempo circondavano la città, per esempio i prati dopo Ponte Milvio, le vigne tra Monteverde e Porta San Pancrazio o fuori Porta San Giovanni e Porta Pia. Una delle destinazioni preferite era però Testaccio: lungo le sue pendici nel Seicento erano state ricavate numerose grotte, “celebri catacombe del vino” che fornivano la temperatura ideale per conservare al meglio quello che della festa era il vero protagonista.

Vino, canti e carrettelle

Chi ne aveva la possibilità si muoveva con le carettelle, le tipiche carrozze a forma di guscio d’uovo trainate da due cavalli, bardati e adornati di sonagli e campanacci. Come testimoniano cronache, stampe e incisioni dell’epoca, al loro interno sedevano sette o nove ragazze vestite a festa, con cappelli ricoperti di fiori e piume: chi sedeva al fianco del carrettiere era chiamata la bellona, le altre invece erano semplicemente le minenti. Uomini, parenti e amici facevano da “scorta” seguendo a piedi, sempre vestiti di tutto punto, suonando, cantando e ballando. Le festose scampagnate attirarono anche l’attenzione di illustri viaggiatori stranieri del tempo, filosofi, osservatori e curiosi. Giacomo Casanova, per esempio, racconta di aver vissuto una giornata bellissima, con un unico neo: la brevità del percorso da Roma a Testaccio, meta della sua personale ottobrata, perché il tempo da passare in carrettella a contatto con le sue donne era decisamente insufficiente.

Divertirsi è una cosa seria

Lo scopo delle scampagnate era il “puro” divertimento: era una festa cittadina prolungata per l’intero mese, a base di grandi mangiate di gnocchi, trippa e abbacchio conditi con fiumi di vino. Si giocava a bocce, a ruzzola, all’altalena o con l’albero della cuccagna, si suonava con tamburelli, chitarre e nacchere e si ballava il “saltarello”, la danza popolare allora più in voga a Roma. La tradizione era presa molto sul serio e, tra vestiti, cibo e trasporto, partecipare a una ottobrata costava parecchi bajocchi. Così, per non sfigurare, qualcuno ricorreva persino ai “gobbi”, il Monte dei Pegni. Una cronaca burlesca del 1860 ricorda che una volta moglie e marito portarono al Monte ognuno i vestiti dell’altro. Una donna arrivò persino a impegnarsi il letto: il marito tornava sempre a casa ubriaco e non se ne sarebbe accorto… Ai meno intraprendenti, non rimaneva che approfittare delle ville romane aperte per l’occasione dai loro proprietari, per esempio Villa Borghese, dove i principi allestivano spazi per giochi e canti. E che ancora oggi è tra i luoghi perfetti per ammirare le sfumature che l’autunno regala a Roma.

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