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I fantasmi di Roma

Castel Sant'Angelo e Ponte Sant'Angelo

In una città come Roma, dove la storia pervade ogni strada e ogni pietra, alcune delle figure storiche che l’hanno popolata in vita pare che ancora lo facciano in forma di spirito o fantasma. Leggenda, fantasia o realtà, queste presenze occulte dalla vita tormentata, la cui anima è rimasta intrappolata tra il mondo dei vivi e quello dei morti, di notte vagano nei luoghi che le videro protagoniste. La Pimpaccia sul suo carro infuocato stracolmo di tesori che corre forsennato su Ponte Sisto, Messalina che vaga sul Colle Oppio, e poi Beatrice Cenci, Cagliostro, e altri ancora...

Vi proponiamo un itinerario sulle tracce delle anime inquiete e dei loro misteri che, al calare della notte, escono allo scoperto per infestare le strade e le piazze più famose del centro storico della Capitale.

Messalina (25-48 d.C.)

In prossimità del Colosseo, accanto ai resti del Tempio dell’Imperatore Claudio, vaga uno degli spettri più famosi dell’antichità imperiale: una donna avvolta in un peplo bianco, le braccia coperte di gioielli e un diadema fra i capelli, in cerca dell’ennesimo amante. È Messalina, la bellissima figlia del console Marco Valerio Messalla Barbato e di Domizia Lepida. Appena quattordicenne, Caligola la costrinse a sposare il cugino della madre, Claudio, futuro imperatore, più vecchio di lei di oltre trent’anni, balbuziente, zoppo e al terzo matrimonio.
Si dice che la giovane donna, insoddisfatta della propria vita matrimoniale, prese a condurre un’esistenza sregolata fatta di relazioni extraconiugali e avventure sessuali nei bordelli della città. Le sue scappatelle sono anche documentate da autorevoli cronisti come Svetonio, Tacito e Giovenale. Insomma, tutta Roma era a conoscenza dei comportamenti trasgressivi di Messalina, tranne Claudio. Quando la ragazza si innamorò del console Gaio Silio, tanto da simulare con lui un matrimonio, l’imperatore decretò la sua morte. La vita di Messalina fu spezzata a soli 23 anni da un tributo militare che, mentre la uccideva avrebbe pronunciato le seguenti parole: “Se la tua morte sarà pianta da tutti i tuoi amanti, piangerà mezza Roma!”.

Nerone (37-68 d.C.)

Come narra la leggenda, il controverso imperatore Nerone fu sepolto al centro di piazza del Popolo e sopra la tomba fu piantato un albero di noce. Le sue ossa, però, cominciarono ad attirare spiriti e demoni che recavano grande spavento ai residenti della zona. I cittadini chiesero aiuto a papa Pasquale II che, nel 1099, dopo essersi ritirato in clausura ebbe un’apparizione della Madonna che gli suggerì di abbattere il noce, disseppellire le ossa dell’Imperatore, bruciarle e disperderle nel Tevere.
Gli spiriti scomparvero e al posto del noce venne edificata una cappella dedicata alla Vergine Maria.
Nel 1472, al posto della cappella, Papa Sisto IV fece costruire l’attuale Basilica di Santa Maria del Popolo al cui interno, esattamente al di sopra dell’altare maggiore, c’è un arco decorato con bassorilievi che ritraggono papa Pasquale II nell’atto di abbattere l’albero di noce.

Beatrice Cenci (1577-99)

Il fantasma forse più famoso di Roma è quello di Beatrice Cenci, giovane nobildonna romana di epoca tardo-rinascimentale, la cui tragica vicenda ispirò pittori, tra cui Guido Reni, poeti e romanzieri come Shelley e Stendhal.
Costretta a vivere con un padre-padrone, Beatrice, dopo anni di violenze, decise di denunciarlo. Le sue richieste di aiuto, però, caddero nel vuoto, sebbene chiunque a Roma sapesse che tipo di persona fosse Francesco Cenci. Al colmo dell’esasperazione, Beatrice, Lucrezia, la seconda moglie del padre, i fratelli Giacomo e Bernardo, il castellano Olimpio Calvetti e il maniscalco Marzio da Fioran, decisero di ucciderlo. Giacomo lo stordì con dell’oppio mescolato a una bevanda. Una volta addormentato, Marzio gli spezzò le gambe con un matterello e Olimpio lo finì colpendolo al cranio e alla gola con un chiodo e un martello. Per simulare una morte accidentale, decisero di gettare il corpo da una balaustra. Il 9 settembre 1598, il corpo venne rinvenuto in un orto ai piedi della Rocca e le ferite giudicate non compatibili con una semplice caduta. Indagando più a fondo, anche con l’uso della tortura, gli inquirenti ottennero delle piene confessioni dai sospettati.
Il processo sentenziò la condanna a morte di tutti gli indagati, la cui esecuzione ebbe luogo all’alba dell'11 settembre 1599.
Secondo le indicazioni date dalla stessa Beatrice, il suo corpo fu sepolto nel cimitero di San Pietro in Montorio in una tomba anonima, come era previsto per i condannati a morte. Ma la storia non finisce qui, perché Beatrice non trovò pace neanche dopo la morte. Nel 1798, durante l’occupazione francese, alcuni soldati entrarono a San Pietro in Montorio, distruggendo buona parte delle pietre tombali tra cui quella di Beatrice. I suoi resti furono dispersi e mai più recuperati. Qualcuno riferì addirittura che il suo teschio fu usato a mo’ di palla.
Da allora, ogni anno nella notte tra il 10 e l'11 settembre, c’è chi giura di aver visto il fantasma della giovane donna camminare avanti e indietro lungo il ponte che conduce a Castel Sant'Angelo, con la propria testa recisa in mano.

Donna Olimpia Maidalchini Pamphilj, la Pimpaccia (1592-1657)

A piazza Navona, visse e prosperò, si può ben dire, Donna OIimpia Maidalchini Pamphilj, meglio conosciuta come la Pimpaccia. Originaria di una famiglia di Viterbo di modeste condizioni, sposò a vent’anni, in seconde nozze, Pamphilio Pamphilj, nobile romano più vecchio di lei di 27 anni e fratello del cardinale Giovanni Battista, che presto sarebbe diventato Papa Innocenzo X. Dal palazzo di famiglia, che affacciava direttamente su piazza Navona, regnava come una vera regina, tessendo trame politiche e manipolando gli eventi, e il papa. La sua forte influenza sul cognato, era nota a tutti, e ben presto divenne l'unica persona di cui egli si fidasse per ogni decisione. Ambasciatori, artisti, mercanti e politici sapevano che bisognava passare attraverso lei per essere introdotti alla corte del Pontefice. Per questo, la ricoprirono letteralmente d’oro e di doni di valore inestimabile. Ossessionata dal denaro, dal potere e dagli eccessi, accumulò enormi ricchezze, senza curarsi delle maldicenze del popolo che la disprezzava e la accusava persino di essere l’amante del papa.
Le sue “fortune” cessarono il 7 gennaio 1655, giorno della morte di Innocenzo X. Poche ore prima della morte del papa, riempì due casse di monete d'oro, le caricò su una carrozza, e fuggì dalla città per non farvi più ritorno. Alessandro VII, il papa che succedette a Innocenzo, la esiliò a San Martino al Cimino, piccolo centro a nord di Roma, invitandola a restituire l'oro, ricevendo un netto rifiuto. Donna Olimpia morì di peste due anni dopo.
Da allora, ogni 7 gennaio, il suo fantasma può essere avvistato sfrecciare a bordo di una carrozza nera in fiamme, tra Piazza Navona e Ponte Sisto in direzione di Trastevere. Alla fine della corsa, la carrozza carica di oro e monete, e Donna Olimpia, scompaiono nelle acque del Tevere, dove i diavoli la ripescano, per condurla all'Inferno.

Costanza Conti De Cupis (XVII secolo)

Un altro fantasma celebre è quello della nobildonna romana Costanza Conti De Cupis, la cui presenza infesta il palazzo di famiglia, oggi Palazzo Tuccimei, la cui parte posteriore affaccia direttamente su piazza Navona.
Dopo il matrimonio con il nipote del Cardinale Giandomenico De Cupis, Costanza si trasferì in via dell'Anima nel palazzo di famiglia del marito, accanto alla chiesa di Sant'Agnese in Agone. Donna di indubbio fascino e avvenenza, era, però, conosciuta in città per un’altra caratteristica: la perfezione delle sue mani, considerate le più belle di Roma. Mani che, come si usava fare all’epoca, l’artista Bastiano volle riprodurle in un calco di gesso da tenere nella sua bottega in via dei Serpenti, dove i Romani si radunavano per poterle ammirare. Un giorno, uno straniero, o secondo un'altra versione della leggenda, un frate di San Pietro in Vincoli, affermò che la donna a cui appartenevano le avrebbe presto perdute esclamando: “Se quella mano è umana, merita d’essere tagliata!”, probabilmente riferendosi al fatto che la gente ne avesse fatto una sorta di culto blasfemo. Quando la voce della profezia giunse all’orecchio di Costanza, questa ne fu terrorizzata; chiese che il calco fosse distrutto, e da quel giorno non uscì più di casa, nel timore di rimanere coinvolta in qualche incidente e con la speranza che il predizione non si avverasse. Passava le sue giornate ricamando, fino al giorno in cui si punse il dito con l'ago. La minuscola ferita produsse prima una grave infezione e poi una cancrena che si estese rapidamente dalla mano al braccio che, nonostante le cure, dovette essere amputato. Purtroppo, quella mutilazione non fu abbastanza per salvarle la vita, perché l’infezione aveva già invaso il suo corpo ormai debilitato. Costanza morì dopo pochi giorni, tra molte sofferenze.
Si racconta che da allora, quando la luna rischiara la notte e le finestre dell’antico palazzo, da dietro ai vetri di una finestra appaia la pallida forma della mano perfetta di Costanza.

Cagliostro e Lorenza Feliciani (XVIII secolo)

Dietro piazza Farnese, in vicolo delle Grotte, si aggira invece il fantasma di Giuseppe Balsamo, meglio noto come Alessandro, Conte di Cagliostro. Ambizioso  esoterista, alchimista e massone, ma anche guaritore, falsario e truffatore, la cui fama non era gradita alle alte gerarchie vaticane. Cagliostro conobbe la bellissima diciassettenne Lorenza Serafina Feliciani, sua futura moglie, in una casa di piacere situata proprio in vicolo delle Grotte. Dopo il matrimonio, celebrato nel 1768 a San Salvatore in Campo, Lorenza comincia ad accompagnarlo in Italia e in Europa, dove svolgeva la sua attività, continuando, con il suo beneplacito, a svolgere il suo lavoro, contribuendo così al bilancio familiare. Tornati a Roma nel 1789, Lorenza sporge denuncia nei confronti di del marito, accusandolo di una lunga serie di reati, tra cui: maltrattamenti, esercizio della magia, adescamento, truffa, sedizione ed eresia.
Cagliostro arrestato e rinchiuso a Castel Sant’Angelo dove subì addirittura 43 interrogatori. Al processo, Lorenza confermò le sue accuse, e Cagliostro venne condannato per eresia. La pena prevista era la condanna a morte che però fu commutata in reclusione a vita, dopo l’abiura. Cagliostro scampò, quindi, alla morte, ma venne condannato al carcere a vita in una cella senza porte, in cui fu calato da una botola sul soffitto, e dove morì quattro anni dopo.
Si dice che, durante la notte, Cagliostro torni in vicolo delle Grotte, chiamando disperatamente il nome della moglie dissoluta.
Per quanto riguarda Lorenza Feliciani, questa fu assolta dalle accuse di favoreggiamento, ma fu confinata per 15 anni nel Convento di Santa Apollonia. Dal 1806, fino alla morte avvenuta nel 1810, fece la portinaia al Collegio Germanico di piazza Sant’Apollinare in condizioni misere e dovendo sopportare il rimorso per le accuse rivolte a Cagliostro. Il folklore popolare racconta di una donna col volto velato di nero che  percorre sempre lo stesso tragitto tra i vicoli di Trastevere e piazza di Spagna, dove fu arrestato Cagliostro. È il fantasma di Lorenza che con i suoi  sussurri e lamenti vaga disperata in cerca del marito.

Mastro Titta, boia nella Roma dei Papi (1779-1869)

Poco prima del sorgere del sole, nei pressi di Castel Sant’Angelo, è facile imbattersi in uno strano personaggio avvolto da un manto scarlatto. È Giovanni Battista Bugatti, il leggendario Mastro Titta, il boia più famoso di Roma.
Si dice che ami passeggiare presso i luoghi dove eseguiva le sentenze, ossia ai Cerchi, vicino la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, in piazza del Popolo ma, soprattutto, nelle vicinanze di Ponte Sant'Angelo.
Ai carnefici era però proibito abitare all’interno della cinta muraria cittadina, per evidenti motivi, ed erano per questo costretti a trovare alloggio al di là del Tevere, tra Castel Sant'Angelo e il Vaticano. Potevano attraversare il fiume e dirigersi in città solo in previsione di un’esecuzione. Mastro Titta, che abitava in vicolo del Campanile 2, nel Rione Borgo, quindi, sulla sponda destra del Tevere, per prestare i propri servigi doveva attraversare Ponte Sant'Angelo. Questo contribuì alla nascita di uno dei detti popolari più famosi: "Mastro Titta passa ponte", che voleva dire che qualcuno, quel giorno stesso, sarebbe stato giustiziato.
Tra il 1796 e il 1864, in 68 anni di onorata carriera, giustiziò oltre 500 condannati, per una media di 7 esecuzioni all’anno. Le sue pratiche letali includevano l'impiccagione, l'uccisione a colpi di mazza, la decapitazione con la ghigliottina e persino lo squartamento, riservato agli autori di crimini di particolare efferatezza, il cui cadavere in pezzi veniva esposto ai quattro angoli del patibolo.
Tra il popolo romano che partecipava alle esecuzioni nacque una curiosa tradizione che durò fino al giorno in cui esse ebbero termine nel 1870: i padri di famiglia portavano i loro figli maschi ad assistere alle torture e alle morti dei condannati. Nel momento esatto in cui una testa saltava, o qualcuno veniva appeso al cappio ed esalava l’ultimo respiro, il bambino riceveva uno sganassone, uno schiaffo, affinché gli si imprimesse nella memoria l’avvenimento e come memento di cosa gli sarebbe potuto capitare, qualora intendesse mettersi nei guai con la giustizia.
Si racconta che, talvolta, offrisse una presa di tabacco al condannato di turno per metterlo a proprio agio e rendergli la sofferenza più sopportabile. Quindi, se doveste incontrare uno strano individuo a passeggio su Ponte Sant’Angelo che vi offre del tabacco da masticare, scappate a gambe levate perché è Mastro Titta, il boia di Roma.

Altri fantasmi

Tra i luoghi in cui si manifestano il maggior numero di presenze è il Muro Torto, a Villa Borghese. Qui, un tempo si trovava un cimitero in cui venivano sepolti ladri, vagabondi e donne di facili costumi. Le loro anime, bloccate tra terra e al di là, vagano in questo luogo alla ricerca di vendetta per essere stati costretti alla dannazione eterna. Tra queste, ci sono quelle di Targhini e Montanari, due carbonari decapitati nel 1825 che di notte vengono avvistati sotto le mura, con le loro teste sottobraccio.
I fantasmi dei due amici inseparabili, John Keats e Percy Bysshe Shelley, i celebri poeti romantici, invece, passeggiano a braccetto discorrendo amabilmente in inglese a piazza di Spagna, dove risiedeva lo sfortunato Keats, morto di tubercolosi a soli venticinque anni.

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